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E’ giunto il momento di una riflessione, forse di un confronto – serio, leale –  con la Magistratura Amministrativa che si fa impropriamente paladina della ragion di Stato.

Lo spunto – che desta più di una perplessità sulla effettiva funzione di terzietà del Giudice – viene dalla riflessione su una recente sentenza emessa dal Consiglio di Stato, III sezione in esito ad un percorso giudiziario nato dalla solita richiesta di riconoscimento del diritto alla remunerazione di produzioni extrabudget.

Questione esiziale per la sanità a gestione privata, nascente dalla chiarissima previsione/prescrizione contenuta dell’art. 8 quinquies comma 1 lett. d) del d. lvo 502/92 secondo la quale “le Regioni… definiscono con i soggetti interessati… l’ambito di applicazione degli accordi contrattuali con specifico riferimento ai… criteri per la remunerazione delle strutture ove queste abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato…”.

La ratio di questa norma, generata dal dibattito in corso sul finire degli anni 80 era  – ed è – chiarissima: la conseguenza della cosiddetta aziendalizzazione è che tutte le strutture erogatrici di prestazioni sanitarie dovrebbero garantire cure a tutti i richiedenti, assicurare al cittadino la libera scelta del luogo del medico, erogare le prestazioni gratuitamente in quanto remunerate dallo Stato con tariffe stabilite dalla P.A. mediante il prelievo fiscale ed infine tenere i conti in ordine.

Sistema problematico ed impossibile per le strutture pubbliche (che infatti sono rimborsate a piè di lista senza l’obbligo di alcun accordo o contratto) ma applicabile ai privati che hanno l’obbligo delle tre “A”, Autorizzazione Accreditamento ed Accordo.

Il legislatore del ’92 – ancora accorto e politicamente avveduto – ha quindi inserito nella norma la valvola di sicurezza concernente i criteri per le remunerazione dei volumi di prestazioni in extrabudget.

Ciò per assicurare una remunerazione sia pure ridotta in misura unilateralmente determinata dalle Regioni (i… criteri) e garantire la libera scelta del cittadino.

In altre parole: gli erogatori devono assicurare il servizio, la libera scelta è garantita, la remunerazione a tariffa anche ma oltre un certo limite (il budget contrattuale) viene ridotta progressivamente per consentire comunque alle Regioni di stare nel testo economico stabilito. Ciò significa governare il sistema – concretamente e gratuitamente, ovvero monitora i controlli, stabilisce bilanci – un lavoro che si chiama governo politico.

Questo in estrema sintesi il sistema, brutalmente trasformato in seguito nella socialmente arrogante affermazione di “insuperabilità” dei tetti, tout court, in maniera tale da sgravare una burocrazia inetta ed incapace dal duro lavoro di controllare la spesa, garantire i diritti delle aziende, dei lavoratori e dei cittadini.

Più facile dire: questo il tetto, ti do questi soldi e basta. Se ne riparla l’anno prossimo.

Noi cerchiamo di contrastare questa deriva sia sul piano politico che sul piano giudiziario. E nonostante le difficoltà derivanti da visioni miopi e inadeguatezze diffuse, non demordiamo ma svolgiamo incessante opera di contrasto ad una deriva illiberale ed antisociale. Tutti noi.

Questa la premessa.

Poi ci imbattiamo in atteggiamenti come quelli del Consiglio di Stato, che – di fronte alla richiesta di applicazione della norma sopradetta – si induce ad affermare che “la censura(la nostra n.d.e.) poggia su di una premessa “ideologica” di totale parificazione fra sanità pubblica e sanità privata… che non trova alcun supporto normativo.

Molto chiaro: secondo l’estensore di questo passaggio (un alto magistrato) la parificazione tra erogatori di servizi sanitari, cioè il principio cardine della riforma sanitaria nel nostro paese nascerebbe da una “premessa ideologica” che “non trova alcun supporto normativo”.

Allora ci domandiamo, cosa sia più ideologico, se invocare l’applicazione dell’art. 8 bis del citato d. lvo 502/92 che da oltre trenta anni costituisce la pietra angolare della parificazione tra la sanità a gestione pubblica e sanità a gestione privata, ambedue finalizzate al servizio pubblico oppure la affermazione, questa si, ideologica, di un Giudice che ignora la legge e sancisce che “La mancata previsione di una remunerazione ulteriore, eccedente i volumi fissati, risulta pienamente legittima alla luce del complesso equilibrio del settore e della ponderazione fra esigenze antagoniste che ad esso mira, per come normativamente disciplinate e tutelate”.

Ed ancora: “il vincolo del tetto di spesa, e la mancata remunerazioni delle prestazioni ulteriori, costituiscono dunque un necessario (e legittimo) limite alla remunerazione delle prestazioni in questione, perché funzionale all’efficiente ed efficace coordinamento e programmazione dell’impiego delle risorse – limitate – disponibili (così Consiglio di Stato, sez. III, sentenza N. 566 del 2016). E pertanto del tutto fuori fuoco il rilievo – ribadito in memoria – per cui con gli ospedali privati si stipulano contratti annuali, mentre “con gli ospedali pubblici non si stipula niente, gli ospedali a gestione pubblica vengono pagati a piè di lista”.

L’argomento tradisce ancora una volta la manifesta infondatezza dei presupposti della pretesa, viziata da una palese erroneità del presupposto interpretativo, consistente nella comparazione fra variabili disomogenee (tali nella loro disciplina giuridica, e nei presupposti di rilievo costituzionale della stessa)”.

Qui il discorso si fa inquietante.

Il Magistrato – il Collegio giudicante – ha dunque ben chiaro che con gli ospedali pubblici non si stipula niente, e vengono pagati a piè di lista, ma questa semplice constatazione, detta da noi sarebbe “fuori fuoco”, perché mette sullo stesso piano/immagine due “variabili disomogenee, nella loro disciplina giuridica e nei presupposti di rilievo costituzionale della stessa”.

Argomentazione chiara se non fosse che l’autore si dimentica di dire quali siano le variabili disomogenee (dal momento che la disciplina giuridica è ancora quella basata sul d.lvo 505/92 che contiene un principio omogeneo: art. 8 bis “le Regioni assicurano i livelli essenziali e uniformi di assistenza di cui all’art. 1 avvalendosi dei presidi direttamente gestiti dalle aziende unità sanitarie locali delle aziende ospedaliere, delle aziende universitarie e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, nonché di soggetti accreditati, ai sensi dell’art. 8 quater, nel rispetto degli accordi contrattuali di cui all’art. 8 quinquies”. Dunque nessuna variabile, tutti insieme “omogeneamente”. D’altra parte i presupposti di rilievo costituzionale sono tutt’altro che “variabili”  (per fortuna) e sono scolpiti, molto omogeneamente nell’art. 32. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Prescrizione di principio che vale per tutti.-

Dunque un curioso modo – per un consesso di giuristi – di liquidare una pretesa avanzata da un soggetto che chiede l’applicazione di una semplice norma dello Stato e quindi la censura del mancato inserimento nel contratto dei criteri per la remunerazione delle prestazioni eccedenti.

Avrebbe potuto il CDS respingere ricorrendo agli ormai scontati artifici interpretativi sulla recessività degli interessi economici dei privati (e dei correlativi loro diritti) rispetto all’esigenza primaria della tenuta dei conti dello Stato.

Ma invece no – E’ uscito allo scoperto; ha preferito, ha voluto, argomentare sul piano politico ed ideologico,  senza riserve o circonlocuzioni  da Tribunale.

Argomento quanto mai dimostrativo della esondazione della funzione giurisdizionale a scapito di quella politica. Lo insegnano al corso di educazione civica alla scuola elementare che il compito del giudice è quello di far rispettare la legge e non i conti dello Stato. A questo dovrebbe attendere il Ministro dell’Economica. Ma in questo tempo nel nostro Paese, la debolezza della politica produce il vuoto che colma il più pronto, e lo fa con attitudine “politica” dunque “ideologica”. Il che dovrebbe essere – è – inibito al Giudice.

Quello che intendiamo dire è che quando un alto Collegio di giustizia non valuta i fatti con rigore alla luce delle leggi, ma secondo la lente della “ideologia”, può giungere a ritenere “fuori fuoco”, a mettere sullo sfondo opaco anche i soggetti che dovrebbe tutelare più di tutti cioè i cittadini che invocano il rispetto della legge ed un equo servizio pubblico.-

Ma così nascono i regimi, quando si rendono opachi i diritti e si mettono a fuoco i poteri.

Il Vicepresidente ACOP

       Enzo Paolini